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1 feb 2024

La fermata al Caffè Centrale: il nuovo romanzo di Franco Duranti

 

È appena uscito il nuovo libro dello scrittore jesino Franco Duranti, dal titolo La fermata al Caffè Centrale, edito da affinità elettive di Valentina Conti. Trattasi di una narrativa, dal punto di vista formale e contenutistico, riconducibile a un genere letterario misto tra il Bildungsroman e l’Erziehungsroman (romanzi di formazione ed educazione), con evidenti caratteristiche del romanzo psicologico. La cover del romanzo, raffigurante una corriera stile retrò, da subito lascia intuire l’ambientazione anni sessanta, quasi a conferire maggiore animazione a una precisa retrospettiva culturale nonché ad uno dei tanti scenari pittoreschi del racconto. L’incipit della fermata della corriera, vicino al Caffè Centrale introduce il lettore e lo trasporta all’interno dei ventinove capitoli, divisi tra i mesi di novembre e dicembre. Protagonista è Fausto, un ragazzino di undici anni, giudizioso e bene educato il quale, a causa delle precarie condizioni di salute della mamma, viene affidato dal padre Renzo, alle cure della zia Flora, nubile e ancora una donna di bella presenza nonostante i suoi cinquant’anni. Faustino, così chiamato perché di costituzione esile e mingherlino, ritrovandosi fuori dal suo semenzaio… senza amici, senza mamma, senza certezze e improvvisamente catapultato in un mondo tutto nuovo, si sente abbandonato e trascurato, piomba in una profonda tristezza dove, in un increspato flusso d’identità, affiora un’interiorità pagata a caro prezzo. Sebbene la zia Flora, che vuole comportarsi come una vera mamma, ma non ci riuscirà mai e ogni altro familiare facciano di tutto per farlo sentire a casa, la mancanza della figura guida diviene peso predominante nell’animo di Fausto. La non presenza della mamma accanto a lui, l’allontanamento dalla sua città d’origine e l’affidamento intrafamiliare, destano in lui un improvviso disorientamento nell’affrontare le delicate questioni esistenziali di un’età alle soglie della pubertà.  

Persino la cameretta, da lui stesso definita ‘cella’, è metafora di un percorso che è mare in tempesta, pur restando un punto di osservazione privilegiato e un porto sicuro in cui rifugiarsi e dove Fausto avvia l’esperienza del dialogo interiore con Dio, in attesa di risposte concrete. È lì che ogni notte l’ansia da separazione si fa via via sempre più pungente, aumenta l’angoscia, i brutti pensieri lo assillano, mille interrogativi lo agitano, deve conviverci ma fino a quando? Sta arrivando il Natale, le voci sulla salute della mamma sono sempre più vaghe e Dio è ancora percepito come assente.

Tuttavia, se da una parte si sente solo ed inutile come un oggetto, riluttante e privo di interesse di fronte a qualunque situazione insolita, dall’altra, i nuovi incontri creano in lui una sorta di esercizio di libertà, con relazioni di tipo orizzontale tra coetanei e non, esperienze, sfide e nuove scoperte che lo portano a maturare prima del tempo. In particolare, la vera amicizia instaurata con il suo compagno di scuola Dolce, un ragazzino di campagna di appena un anno più grande di lui, lo aiuterà a comprendere le dinamiche di un diverso ambiente sociale, stimolando il sostegno reciproco e una maggiore attenzione alla virtù della fragilità e della condivisione.

Il tema dell’assenza-presenza genera il conflitto interiore di un disagio, di una soggettività frantumata e diviene centralità del romanzo.

L’arricchimento lessicale, le sequenze descrittive di personaggi, luoghi e ambienti e la competenza narrativa nonché l’abilità propria del Duranti nel raccontare gli eventi, con focalizzazione interna, in maniera chiara e ben strutturata, rendono partecipe il lettore e lo coinvolgono emotivamente.

La forte carica espressiva e l’attenzione ai particolari anche più insignificanti mostrano l’ipersensibilità del piccolo protagonista e i suoi opposti stati d’animo, tra presente e passato, giorno e notte, conforto e angoscia ma forte è anche il desiderio di compiacere soprattutto i nuovi amici.

Il romanzo è una storia toccante, imperniata sulla ricchezza di contenuto che fa riflettere dal punto di vista psicologico: fino a che limite si può sostenere il peso dell’assenza? Ed è proprio il giorno di Natale che Fausto si ritrova di fronte all’immagine di una mamma diversa che non riconosce perché lei stava lì, assente, con lo sguardo fisso rivolto alle lingue di fuoco che guizzavano nel camino…

Il regalo che attende da parte dei suoi genitori, alla fine non ha più senso, perché in realtà preferirebbe avere la mamma di un tempo: una donna di particolare e raffinata bellezza… gli occhi castani, con intarsi di pagliuzze nocciola, ma con lo sguardo offuscato da un velo di tristezza, quello stesso velo di tristezza che aleggia di continuo intorno a lui, imprigionandolo in quel penoso distacco. Nessun bambino dovrebbe vivere una simile esperienza, soprattutto nell’età dello sviluppo, in cui la figura della mamma è essenziale ed imprescindibile.

 

 http://www.edizioniae.it/catalogo/la-fermata-al-caffe-centrale/

 

 

 

 


7 ott 2023

Dalla parte del figlio di Giuseppe Filidoro: un romanzo illuminante e pregevole




Dalla parte del figlio è il nuovo libro di Giuseppe Filidoro, edito da Bertoni Editore (febbraio 2023), un romanzo psicologico illuminante e pregevole. La narrazione si fonde con una minuziosa analisi della parte più profonda della psiche umana, con estrema delicatezza oltre che con specifica conoscenza. Dalle sfaccettature comportamentali di ogni protagonista, si evincono tematiche complesse di disagi ‘sommersi’ quali importanti testimonianze di indiscutibile verità. Il romanzo individua con chiarezza e precisione il valore di equilibri familiari che coinvolgono una coppia e il rapporto genitori-figli e di come tali relazioni si ripercuotano su ogni singola esistenza e soprattutto, sull’immagine fornita verso il mondo esterno.

La scena quotidiana e rituale della prima colazione è l’incipit descrittivo della storia, coerente e credibile, di una famiglia tradizionale composta dalla triade padre, madre e figlio, protagonisti e narratori in prima persona. Ludovico è un padre molto preso dal lavoro, la sua attività professionale copre la maggior parte del tempo ed è eccessivamente esigente e meticoloso; Crystal è una bella donna, madre e moglie premurosa e compiacente ma palesemente insicura, nel suo tempo libero si diverte a postare le sue foto in rete; Samuele è il figlio quasi diciannovenne, diligente e coscienzioso che ogni genitore vorrebbe avere, studente brillante ma poco eloquente, sfuggente e abbastanza enigmatico: “Quando  ho voglia di estraniarmi dal mondo intorno a me mi concentro sulle mie mani […]Dall’età di cinque anni ho iniziato a superare i momenti di imbarazzo in questo modo”.

Da subito entriamo in contatto con l’intimità di un contesto familiare riservato, apparentemente normale e ben inserito nel tessuto sociale, come tanti altri. «La perfezione in tutto è l’obiettivo che ognuno dovrebbe avere nel condurre la propria vita» è il motto vigente quale simbolo di una famiglia felice. La loro esistenza scorre pacificamente nella convivenza domestica, nel lavoro, nelle amicizie e nello studio finché non emergono situazioni segrete e non sempre confessabili, che trasformano quella normalità senza macchia a cui i protagonisti ambiscono, in una realtà vulnerabile e ingannevole. In particolare, il bagaglio emotivo e gli strascichi di una mancata affettività nel passato di Ludovico e Crystal, ricordi e reminiscenze di traumi infantili rimossi come fantasmi ma mai risolti, sono costantemente presenti. I pensieri, espressi sempre con monologhi interiori, inconsapevolmente, ingabbiano in meccanismi disfunzionali che non danno pace, condizionano e determinano ogni futura azione e personale visione dei fatti.

Al contrario, la personalità di Samuele, chiamato Sam, poco visibile nella prima parte del romanzo, si concretizza solo dalla descrizione della sua camera, il cui accesso è proibito ma dove Crystal entra comunque e di nascosto: “Mi sento inquieta. In questa camera ci sono un silenzio e un ordine irreale […] Mi chiedo cosa non conosco di mio figlio”. A quanto pare, Sam è un adolescente tranquillo, non ha mai causato alcun problema ai suoi genitori, all’ultimo anno di liceo raggiunge il massimo del profitto tanto da meritare una borsa di studio per l’Università di Harvard. “Samuele è sempre nella sua camera a studiare, concedendosi un’uscita solo al sabato sera con i suoi due amici, Dado e Filippo”, entrambi soggetti strani: Dado ha un carattere un po’ ribelle mentre Filippo è un ragazzo fragile ma Sam si trova bene con loro, li protegge e allo stesso tempo, li domina da vero ‘capobranco’. Vanno spesso a giocare a bowling e si eccitano nel fare strike: un gioco che si dimostra tutt’altro che strumento ludico e di divertimento.

Tutto è ‘razionale’ nella logica delle emozioni ma l’etichetta della perfezione che Ludovico ossessivamente pretende da se stesso, dalla moglie nonché dal figlio, inizia a vacillare. La narrazione suggerisce che l’equilibrio familiare è indubbiamente fittizio, esiste solo in virtù di un’illusione narcisistica della famiglia perfetta pertanto, destinato a rompersi. Inizia tutto quando Crystal scopre l’esistenza di un diario che Sam è solito scrivere quando si chiude in camera: “Tutti i ragazzi hanno un diario […] Le pagine sono scritte con caratteri insoliti[.] Le lettere maiuscole sono finemente disegnate, con orli colorati e volute e le lettere minuscole terminano tutte con una specie di virgola ricurva, un segno che avverto come minaccioso, non so perché”.

Secondo la concezione pirandelliana la «trappola della forma che imprigiona l’uomo è la famiglia» e per Sam, infatti, il suo ambiente familiare è opprimente, pieno di ipocrisie e menzogne; le personalità dei suoi genitori sono delle illusioni: “Mio padre e mia madre sono entrambi piuttosto insignificanti, ma in fondo mi sembra siano buone persone”. Nei suoi scritti Sam si rivela senza inibizioni, non finge di essere qualcosa di diverso, mostra chiaramente il senso apatico, frustrato e cinico della sua esistenza nonché la sua predisposizione aggressiva.  Il mondo bello e pulito gli va stretto, vuole avere più esperienze, manifesta la voglia di riservatezza, vede i genitori sotto un’ottica completamente diversa. Un atteggiamento quale primo segnale di un temuto allarme tuttavia, sottovalutato dai suoi genitori.  Essere genitori è l’esperienza più difficile che ci sia, non esiste un manuale istruzioni e può accadere che figure adulte della famiglia siano esse stesse in difficoltà nell’ affrontare il dolore a livello emotivo o peggio, abbiano per prime la necessità di essere aiutate.

Dal punto vista tecnico e strutturale, nella sequenza dei capitoli, sono presenti sia dialoghi diretti che brevi messaggi di telefonia, a conferma dell’attualità degli argomenti; il procedimento narrativo è ricco di metafore, simbologie e utilizza l’analessi, interrompendo il presente per raccontare eventi passati, quali elementi essenziali per una maggiore comprensione dei fatti. La trama coinvolgente ed emozionante, lo stile e la struttura ineccepibili, rendono il romanzo una valida esperienza di riflessione e consapevolezza, oltre che un’ottima lettura.

Da sottolineare gli aspetti della psicologia delle emozioni e del disturbo psichico, con una naturalezza che determina un passo avanti, al fine di sdoganare dei temi ancora poco diffusi, dissimulati quasi sempre dietro la vergogna.

La penna di Filidoro è un inquieto scatto fotografico che denuda da tutte le angolazioni e offre una nuova e sorprendente comprensione umana di cause e conseguenze, in quel concetto fin troppo stereotipato di disagio giovanile, che diventa esistenziale nel momento in cui manca la realizzazione del Sé futuro e del mondo. Partendo dalle esperienze genitoriali, ci si rende conto degli infiniti lati oscuri ereditati e troppo spesso, dietro la trappola del perfezionismo si celano vere e proprie psicopatologie. Si nasce in famiglia, si deve poter nascere da una famiglia sana e normale ed è compito della famiglia introdurre il figlio alla vita e ai rapporti sociali. Ma, soprattutto, oltre all’amore, è importante l’accettazione dei propri figli, nel rispetto della loro unicità. La famiglia perfetta non è mai esistita, si rivela un fallimento anche nella finzione.

Dalla parte del figlio: un’opera dove le problematiche di ‘ferite’ irrisolte danno origine a qualunque cosa… l’interpretazione dell’epilogo della vicenda familiare, più che attendibile, spetta ai lettori.



3 ago 2020

"Il sole tra le mani" di Roberto Ritondale




All’alba di ciascuna solitudine c’è sempre un vuoto che non si è più colmato



Aldo Montesi è il protagonista del romanzo “Il sole tra le mani” di Roberto Ritondale (Leone Editore- 2017). Chi è Aldo: un uomo indifferente, cinico, insensibile, che si nutre delle lacrime e delle emozioni altrui o, in realtà, è semplicemente un uomo che ripercorre a ritroso la storia della sua famiglia per riscoprire un’identità in parte smarrita, in parte volutamente rimossa? Aldo ha bisogno di tempo per ritrovare se stesso, per riconoscersi e finalmente fare pace con quegli angoli nascosti del suo cuore, della sua emotività, chiusi negli anfratti della sua stessa memoria. Essenzialmente la narrazione ci mostra un personaggio a tutto-tondo, un “malincomico” che si affaccia sulla natura umana, intrappolato nel costante processo tra oscurità e luminosità, in un viaggio di coscienza attraverso i dolorosi capitoli di un'infanzia interrotta da un tragico evento quale l’improvvisa morte della madre “È da quel giorno che rubo lacrime straniere”. In età adulta, affetti familiari, amori e amicizie si confondono con segreti, silenzi e amare scoperte, sorretti da moventi di amore/odio. Aldo non trova più l’unità del suo essere, è consapevole della propria disgregazione interiore, fin troppo evidente per quel senso di triste, melanconica ironia della sua vita che accentua il carattere cosciente-incosciente di ogni suo comportamento.
Personalità sdoppiata in multiformi aspetti dei quali l’uno non si ritrova nell’altro; un insieme di personalità incompiute di povera vitalità, apparsa nelle varie fasi di vita e subito cancellata, scacciata dalla successiva. Memoria, perdita, ritrovamento si inseguono continuamente e, solo quando si incontrano, riescono a identificarsi e darsi un senso, in una sorta di memoria involontaria proustiana. Il ricongiungimento con se stesso e la disillusione imperante di losche questioni a lui sconosciute, spingono Aldo ad una svolta cruciale che lo porta in India dove vive in prima persona il terremoto- maremoto del 26 dicembre 2004. L’evento drammatico lo segna profondamente ma allo stesso tempo pone rimedio alla sua condizione psicologica, apre un nuovo cammino da seguire per annientare quel dolore che lo attanaglia da sempre. Egli scopre un particolare dono e come questo può essere utilizzato al meglio per aiutare gli altri e valorizzare la propria autostima.
Un innovativo e peculiare rapporto tra contenuto e forma di una parola viva e concreta di un’opera strutturata in sequenze narrative dialogiche e omodiegetiche nonché una precisa filosofia di vita e profonda riflessione caratterizzano il linguaggio e lo stile sempre molto profetico, allusivo e aforistico, rendendo il nostro Ritondale un abile scrittore in ogni sua esperienza letteraria. Una trama che affascina per i tanti simboli ed enigmi di un vissuto che possono ampiamente riferirsi a chiunque ove la parola affidata al protagonista è bivoca, in quanto riflette l’ideologia dell’autore nonché altri aspetti della sua personalità.
Lo scrittore trova così una nuova opportunità per indagare l’animo umano e cogliere quelle capacità, non sempre visibili allo sguardo altrui, di stare a contatto con le proprie emozioni per poterle gestire al meglio. Il romanzo è una storia che parla di amore inteso quale amore universale; dolore e amore si congiungono e infine si completano dando vita a un nuovo inizio, l’avvio verso una nuova fonte di energia “Il segreto, mi dico, sta tutto nell’aprirsi, donarsi agli altri. Nel farsi tempio riciclando il dolore.”
Ritengo che l’opera sia un atto di lealtà che sgombra il campo letterario e quello etico di alcuni pregiudizi convenzionali, ridimensionando per così dire, anche il dramma della morte e della solitudine, nell’attimo stesso in cui si ha “la forza per uscire dall’isolamento […]  per dare un calcio al vuoto, diradare la nebbia, scacciare la solitudine.” Alla base, la prospettiva della ricerca di uno scopo superiore che è soprattutto crescita spirituale. Allineandoci ad aiutare e non solo a livello fisico, possiamo stemperare le paure e smettere di soffrire per ciò che non siamo più e mai più saremo, sviluppando una piena guarigione spirituale. 

    

17 giu 2020

La città senza rughe di Roberto Ritondale: romanzo premonitorio e ammonitorio





La città senza rughe” (BookRoad- maggio 2020) è il nuovo romanzo di Roberto Ritondale, redattore Ansa e scrittore talentuoso. Mi permetto di definirlo così, con cognizione di causa, poiché ho già avuto modo di valutare e motivare le sue innate doti di abilità e originalità in occasione di un concorso letterario nel lontano 2016.
Esordio della narrazione è l’anno 2030, in un contesto socio-politico proiettato nel futuro, il percorso impresso all’opera nasce dall’intelligenza emotiva e percettiva dell’autore, un ipotetico scenario ma sottolineo…  non del tutto assurdo, di una Como città-stato: una Novum Comum governata dal regime autoritario del colonnello Ebe, basato su una iuventucrazia che ha per scopo quello di metter in atto una vera e propria mutazione antropologica, un modello sociale dove dominano “smartphone e eyePhone, computer, tablet, droni e dispositivi di controllo individuale”. Trattasi di un romanzo sociologico che empaticamente riflette e racchiude in sé dubbi, ansie e paure comuni profondamente attuali quale ritratto di un universo chiuso e allucinante, una metafora perfetta di un processo tecnologico e una disuguaglianza che impoverisce le menti e le anime tutte. Tra i personaggi troviamo il colonnello Ebe, visto da tutti come dotato di grande abilità e lungimiranza ma che in realtà dimostra la pochezza di chi si affida solo al desiderio di potere, preso dalla folle convinzione di allontanare gli anziani che, a suo parere, sono ostacolo alla sopravvivenza e alla crescita dell’intera comunità, dimenticando che senza passato non esiste futuro e che quella fase avanzata di vita s’identificherà infine nella sua stessa paura del proprio divenire; la coraggiosa settantacinquenne Etilla, madre di Memo e nonna amorevole di Ezio, adolescente aspirante scienziato, Ippolita, Tespi, Ocno, Lisa, Marco Catone, Melampo, Pitteo e tanti altri, ognuno descritto da Ritondale quale protagonista di vicende avvincenti, nel susseguirsi di peripezie che accomunano in diversi stati d’animo ma con un’unica tensione narrativa, il climax finale, epifania di una sensibilità e una coscienza risvegliate che si palesa il 15 agosto 2040. Varie le tematiche toccate dall’autore: digitalizzazione, senilicidio, bullismo, immigrazione, anaffettività, solitudine, irresponsabilità e irrispettosità rendono questo testo letterario strumento di denuncia verso una società che premia le apparenze e riduce gli esseri ad automi senza una volontà propria, poiché facilmente condizionabili ai fini di interessi economici e di assoluto potere “Tutto è pronto per celebrare il valore della bellezza, la forza della disciplina, la propulsione dell’operosità produttiva, la potenza della giovinezza”.
Dal punto di vista stilistico, abbiamo a che fare con accuratezza di forma e struttura, che si sviluppa in perfetto ordine e si uniforma al migliore modello di narratologia. Nota essenziale è la perspicuità del narrare a delineare i contorni di una parola viva e spontanea, un linguaggio figurato che giova alla chiarezza e alla brevità, attraverso dialoghi spontanei, pensieri, ricordi, tra neologismi “buoni” di etimologia latina, madre della nostra stessa lingua e, a tratti opportunatamente utilizzata nella stesura; così come la non casuale scelta di nomi storici e mitologici nonché di citazioni in esergo, sono frutto di un’ispirazione ben centrata. Più che il successo di un futuristico processo evolutivo, l’autore mostra e dimostra che i nostri valori più preziosi risiedono in noi da sempre e che nessun regime può cancellare la nostra natura e la nostra etica. “La città senza rughe” sottolinea quell’impronta sensibilmente rispettosa che è amalgama ricco di esiti e suggestioni che commuovono e, allo stesso tempo, suscitano nel lettore empatia e condivisione d’intenti e di sentimenti. Tenace e costante la volontà, volta a confermare che occorre imparare dal passato progettando il futuro non distruggendo e alienando il nostro patrimonio culturale bensì conservando i più alti valori delle nostre origini, quali la poesia, la musica, gli antichi monumenti; tutto ciò che è memoria è prezioso.
Ogni regime totalitario è caratterizzato soprattutto dal tentativo di controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita “Lui promuove il nozionismo, non la cultura, come tutti gli uomini superficiali. I poeti gli fanno paura perché scavano nella mente e nell’anima, guardano oltre l’orizzonte… E con le parole i poeti costruiscono ponti”.
Il mio personale elogio verso un’opera, a mio avviso, decisamente metapsichica, soprattutto laddove esiste un chiaro messaggio premonitorio e ammonitorio riguardo il tema della vecchiaia, invitando e contribuendo ad acquisire consapevolezza che le “anime deboli che non sono utili alla nostra comunità” in realtà suggellano le virtù dell’esperienza, del buonsenso e della purezza d’animo.






13 nov 2019

"La moglie di mio padre" di Franco Duranti


 “La moglie di mio padre” edito da Seri Editore (settembre 2019) è decisamente un salto di qualità come realizzazione letteraria dello scrittore Franco Duranti, giunto così alla sua prima esperienza romanzesca. L’opera si caratterizza quale Entwicklungsroman, in sintonia con un’evoluzione di quel processo di formazione, identificazione, introiezione e proiezione nonché di trasformazione di un’età adolescenziale. Lorenzo è la colonna portante del testo mentre sorgente e centro è il fuoco interiore di una passione segreta che irrompe nella sua vita e implica il dover affrontare un cambiamento nella sfera sociale, nell’ambito familiare così come a livello emotivo-relazionale: “Quel pomeriggio lei franò come una valanga sui miei giorni”. Nella diversità di un rapporto e di un amore insolito con una donna adulta, la quarantenne Agnese, prevale lo spirito di sopravvento dell'istintualità; il bagaglio esistenziale ed esperienziale di un ragazzo dona l’avvio a un’indagine di diversa natura, dove la sottigliezza psicologica di una concupiscientia, diventa filtro cui passa un vissuto che si articola su due piani: quello dell’incontro, reso con viva immediatezza: “breve, veloce, come un lampo che con uno squarcio repentino aveva lacerato la mia personalità…” e quello della ricerca di sé, della propria identità, di un’iniziazione a un mondo più adulto attraverso l’autoanalisi e l’analisi dei propri rapporti con gli affetti più cari nonché della maturità della propria sessualità. La seduzione e la fascinazione, in una sorta di ‘follia d’amore junghiana’, improvvisamente mettono in discussione le stesse caratteristiche familiari ma, allo stesso tempo, s’intrecciano con la riscoperta dei legami affettivi nei riguardi di ogni personaggio, con un proprio ruolo e importanza all’interno della narrazione. Primo fra tutti viene sottolineato il rapporto con la madre, nominata quasi sempre come Clara. Ciò merita attenzione, dall’utilizzo del nome di battesimo si evince, infatti, un tipico comportamento di Lorenzo, il quale sembra rifiutare un qualche aspetto genitoriale, ne prende distanza quasi a deprivarlo del ruolo che le compete. Lorenzo si concentra sullo sport, per non pensare ai suoi “vuoti” mentre Agnese, donna profondamente narcisista, ha bisogno di qualcuno che la veneri. Un incontro emotivamente coinvolgente e carico di potenzialità aiuta entrambi a crescere psicologicamente e una condizione inconscia di dipendenza affettiva finisce per sostituire una madre distratta e presa dai suoi interessi. Solo più avanti, il distacco improvviso dalla figura materna diviene possibilità creativa di un ritratto più intimo e sofferto; stessa cosa avviene con il personaggio di Federica, coetanea di Lorenzo ma che, nella storia assume inizialmente una veste tutto sommato marginale e scontata, essendo la sua fidanzatina ufficiale.
Man mano che si procede nella lettura, fuoriescono inesorabilmente i diversi comportamenti, finché iniziano a stabilizzarsi amore, interessi e amicizie ove vince il senso di responsabilità, di maturità, d’indipendenza e di capacità di farsi carico di ogni situazione mettendo il senso del dovere sopra a ogni altra cosa; un’incondizionata consapevolezza mette fine a tutte le illusioni e a tutte le ipocrisie. In un’inesauribile ricchezza di sfumature e raffigurazioni suggestive, ci troviamo di fronte a una narrazione sinuosa che è purezza e precisione di una prosa mai stucchevole o scontata. L’autonomia sintattica e contenutistica della fabula e dell’intreccio sono perfettamente coordinate in sequenze narrative, descrittive, riflessive, espressive e dialogiche dove incuriosiscono il gioco prezioso di nuove scoperte, i rinvii, le allusioni, i mutamenti di prospettiva, gli improvvisi arricchimenti di significato di fatti che scavano entro la psicologia umana, ad avviluppare passioni, errori, proibite delizie e infingimenti.
Il finale aperto, senza l’intento di una rivelazione definitiva, fa di questo romanzo un’opera letteraria di straordinaria vitalità, sorretta com’è da una scrittura penetrante di uno scrittore romantico e poetico, il quale demanda a Lorenzo e ad Agnese il delicato e impegnativo compito attraverso la loro  esperienza passionale, di superare il concetto di un gratuito compiacimento erotico, lasciandoci addentrare nell’universo di un’emotività maschile che si avvia verso un’educazione all’amore e alla maturità affettiva: valori essenziali della persona umana e di ogni autentico rapporto di coppia.


11 feb 2019

Mangereta di Adalberto Maria Merli





Cresce l’interesse per l’opera prima “Mangereta” (La nave di Teseo editore- 2018) di Adalberto Maria Merli, uno dei più grandi attori-interpreti nella storia del teatro, del cinema e della televisione, che qui ritroviamo nelle vesti di scrittore. Parliamo di un’autobiografia romanzata, che si configura essenzialmente come Entwicklungsroman e, nella complessa cornice della seconda guerra mondiale, a partire dal 1943 fino alla ricostruzione post-bellica, si focalizza sull’immediatezza e sugli sviluppi delle innumerevoli vicende che vedono coinvolta l’esistenza individuale e familiare dei Merli. Esperienze di un vissuto maturano la consapevolezza di valori quali la tolleranza, l’accettazione, la solidarietà, in un periodo storico scolpito attraverso la forza espressiva delle parole dell’autore, che sono testimonianza viva e vessillo di risvolti psicologici collettivi e di significati condivisi. Una narrazione retrospettiva in graduale trasformazione, in cui i fatti vengono tutti descritti in prima persona: l'Io narrante protagonista è Berto o meglio “Mangereta”, soprannome metaforico attribuitogli dalla nonna friulana, che sta a indicare la caratteristica di chi mangia molto; l’attore entra in scena da scrittore e interpreta il suo nuovo ruolo: se stesso. Sin dall’inizio del romanzo, si evince la dicotomia di due mondi, due opposte visioni della vita: il calore e l’amore di una famiglia unita da una parte e l’oscurità e il male di una guerra che irrompe in una sfera privata e stravolge le priorità quotidiane ma che, tuttavia, il protagonista si sforza di aggirare con la sua fame di vita, di gioco, di sogni e fantasie, alla ricerca di quelle contromosse “proibite” che per un bambino hanno il sapore di un’emozionante e attraente avventura. Per esorcizzare i dolori e le ristrettezze di una guerra, fonte di ansia e sradicamento, Berto riesce a cavarsela anche meglio degli adulti e insieme ai suoi tre fratelli, sempre spinto da un’irrefrenabile curiosità, impara a confrontarsi con ogni nuova conoscenza, affronta ogni volta nuove sfide, s’impegola in diverse monellerie, si difende, soccombe o ne esce vincitore, pur non dimenticando mai il valore positivo del rispetto verso gli altri. Egli esplora un mondo che racchiude in sé incertezze, tensioni e paure che gli temprano il carattere e gli impongono una crescita personale. Seppur educato con estremo rigore, disciplina e forti imposizioni, soprattutto da parte della madre friulana “dai lineamenti morbidi ma volitiva nel carattere”, sceglie personali scorciatoie di sfogo, per evitare ogni sgomento e godersi quella poca serenità che un bambino e un adolescente merita di vivere.
Lo stile di scrittura è disinvolto, spontaneo, senza alcuna retorica e libero da inutili orpelli, suscita ammirazione, empatia e, a tratti, ilarità. Ciò che maggiormente affascina è la capacità di creare immagini vive, con l’aiuto di poetiche descrizioni di luoghi e paesaggi nonché di ritratti individuali fatti di sguardi, mimiche facciali e caratteristiche personali. Il linguaggio cambia forma e densità, lasciandosi travolgere da sfumature e profondità di stati d’animo, a seconda delle situazioni in cui si trova il protagonista, il quale non si vergogna di esercitare un pungente sarcasmo anche contro la tradizione culturale e i vizi del suo tempo. Non fa sconti ad alcuno, non nasconde episodi raccapriccianti di quel periodo storico né si fa scrupolo, nel suo cuore, di simpatizzare con persone “nemiche” ma a lui care; con le sue riflessioni personali ricostruisce ed evidenzia sia gli aspetti migliori che i peggiori del suo passato.
Un romanzo minutamente costruito, stratificato di spunti, di episodi, di tutto ciò che il ricordo ha accumulato in tanti anni; strettamente ancorato a una memoria emotiva che, tessuta con finissime osservazioni psicologiche, è strumento privilegiato per farci comprendere fino in fondo la drammatica realtà sociale di quegli anni oltre che una dimensione relazionale e affettiva che, nonostante tutto, attraverso lo sguardo di un bambino, lotta quotidianamente contro sentimenti di paura, angoscia e vulnerabilità.





1 mar 2018

Cronache di un gatto viaggiatore di Hiro Arikawa: un toccante rapporto e una magica alchimia d'intenti






Questa creatura silenziosa e ricca di mistero, pigra e oziosa, che nasconde gelosamente quanto è bello nascondere, quando è la sua ora urla il proprio amore da tenere desta tutta la contrada
(Il gatto di Giovanni Raiberti, a cura di Aldo Palazzeschi - 1946).


Non potevo proprio esimermi dal pronunciarmi su un romanzo avvincente ed esemplare che, non a caso, risulta essere un caso editoriale in tutto il mondo. A raccontarci questa storia, tenera e profonda, è la scrittrice giapponese Hiro Arikawa in “Cronache di un gatto viaggiatore (Garzanti- 2017); un romanzo che si discosta di molto da tanti altri dello stesso genere, per stile e contenuto, in quanto un perfetto esempio del toccante rapporto e di quella magica alchimia d’intenti e sentimenti che possono nascere dal contatto con un animale domestico ritenuto, in assoluto, il più libero al mondo e di come, al contrario, può risultare facile entrare nel suo nobile universo, laddove si è in grado di penetrare ogni suo comportamento. La scrittrice giapponese è riuscita a risaltare un legame di caloroso affetto, di amicizia e complicità tra i due protagonisti: il gatto Nana, randagio, fiero e risoluto, e Satoru, un ragazzo molto educato e sensibile. Attraverso un racconto-dialogo, fatto di linguaggi corporei, esperienze soggettive, incontri ricchi di stati d’animo e rapporti diversificati di amicizia, indifferenza e antipatia, proprio come avviene tra gli esseri umani, Nana non ha nulla da invidiare ai più autorevoli psicologi umani.
In una rappresentazione reale, tanto del contesto quanto dei fenomeni emotivi e morali, il romanzo è un incantevole viaggio attraverso le bellezze del Giappone, da cui nascono la grazia, il delicato senso della natura e quell’innata estetica che sono parte integrante della cultura nipponica. Ogni circostanza vissuta rileva l’unicità e l’innocenza dei reciproci sguardi, persino nel silenzio del discorso interiore, in un’atmosfera narrata con compiaciuta ma deliziosa malizia.
Nelle pagine s’incontrano paesaggi di pura contemplazione che trasmettono serenità, pace, senso del sogno e del meraviglioso. Satoru mostra al suo amico felino una sorta di zibaldone della sua vita: riflessioni improvvise, elenco di cose detestabili, luoghi, persone, cerimonie, feste, gite, di cui ogni esperienza ha un proprio risvolto, poiché connessa con il passato del ragazzo o legata a qualche tradizione.
Il mio plauso alla scrittrice che ha saputo indagare, con rispettosa maestria, nella psiche di Nana, di Satoru e dei tanti amici incontrati nel loro vissuto, quali coinquilini di un’esistenza basata sulla condivisione in solidale empatia e da cui si evincono la profonda intelligenza nonché la saggezza e la furberia dell’animale. Ogni evento, sia gioioso che doloroso mostra come anche un gatto può avere fatti privati di una certa importanza per lui.
Lo stesso Giovanni Paolo II, nella sua lettera enciclica “Sollicitudo rei socialis”, affermò che non solo l’uomo, ma anche gli animali hanno il soffio-spirito di Dio. Anche le bestie hanno un’anima”.
Il testo è sicuramente un’evidente conferma di quanto ormai noto, riguardo al rispetto e alle attenzioni che la civiltà giapponese riserva nei confronti dei gatti; l’innovazione, al contrario, è nella capacità di delimitare, misurare e connettere cose tanto impalpabili e complicate, sapendo che è quasi impossibile poter decifrare ciò che gira nella testa di un gatto. Ci si può soltanto arrendere di fronte al fatto che Nana abbia ricavato delle informazioni su ciò che avveniva intorno a lui, utilizzandole in modo coerente e fino alla fine. L'amicizia di un gatto è un bene prezioso e irripetibile, averla contribuisce a sentirsi più fieri di sé e del proprio rapporto con il mondo e soprattutto, non termina mai, poiché resiste e supera i limiti umani, trasferendo i rapporti anche in un’altra dimensione, quella ultraterrena.
L’originalità della forma espositiva e delle espressioni utilizzate fanno di questa storia una piacevolissima lettura che consiglio vivamente a tutti, perché coinvolge sia interiormente che spiritualmente.

10 lug 2017

"I Bucaneve di Ravensbrück" di Anna Laura Cittadino: evoluzione animica dell'amore oltre la vita.




Eppure l’amore non è solo perdita, rifiuto, mancanza; è impulso che smuove l’ordinaria sopravvivenza, è il camminare su una corda in punta di piedi sfidando la vertigine e il vuoto. È quel volo senza ali nel nostro infinito in cui è perfino possibile riconoscere il diafano riapparire delle anime”.

(Dalla Prefazione di Nuccia Martire)




Anna Laura Cittadino con I Bucaneve di Ravensbrück (Casa Editrice Kimerik – 2017) apre la via a un quesito sulla vera essenza dell’Infinito e dell’Eterno, nella veste leggera e gradevole di una relazione magica che nasconde, dietro l’apparenza di un amore improvviso e inspiegabile, la nascita di un legame karmico, un affresco quasi fiabesco di una storia d’amore che, nel tessuto narrativo, rivive il sentimento di un altro percorso molto più drammatico.
L’incontro tra un uomo e una donna, entrambi scrittori i quali, in un primo momento sembrano condividere solo la passione per una stessa arte, consente alla scrittrice di varcare la soglia di una memoria celata nell’anima, al fine di riscuotere un credito dharmico, verso identità entro cui il sentimento agisce e vive ab aeterno, sciogliendo i nodi irrisolti di un vissuto interrotto. Nella penna della Cittadino, il presente dei protagonisti, qui senza alcun nome proprio ma unicamente contraddistinti dalle forme oblique pronominali “Lui” e “Lei”, è tessuto con delicatezza di toni, sullo sfondo romantico ma non mieloso di una rielaborazione del passato; quasi una trasmigrazione di anime affini che continuano a viaggiare insieme cercando la propria metà perduta.“ […] Lui è… lui è… l’altra parte di me, l’altra metà del mio specchio, l’altra metà del mio sentire, è quel sogno che da sempre custodisco dentro e ho paura, so che mi sveglierò e lo vedrò svanire, evaporare, come una macchia d’acqua su un vestito… non può esistere”.
Due anime invisibilmente connesse, oltre le cognizioni spazio-temporali e in un ciclo infinito, si ritrovano in una nuova vita per poter risolvere ciò che era rimasto in sospeso. Chiusi i cancelli sugli orrori raccapriccianti del 1944 nel campo di concentramento femminile B2 di Birkenau, dove medici e ricercatori nazisti usavano le donne Rom-Sinti come cavie umane per esperimenti sulla sterilizzazione e per effettuare altri tipi di ricerche e, grazie soprattutto a una regressione ipnotica, le anime dei protagonisti ricordano e rivivono lo stesso grande amore di Marcin Lodz e Beatrix Cioran. È come se la loro anima, prim’ancora di incarnarsi, abbia scelto di sanare i dolori e il distacco, riscattando il proprio amore conclusosi troppo presto e non vissuto interamente “L’affanno si farà respiro e il respiro sarà il vento che gonfierà le vele del nostro cuore e ci spingerà lontano da quel tempo privo di luce che è stato il nostro passato”.
Quella vena di grazia intimamente poetica, propria di un personale procedimento stilistico e che abbiamo già trovato nei precedenti romanzi della scrittrice, riaffiora nuovamente dando vita a una continua onda lirica che fascia e avvolge il tutto, senza turbare minimamente la rappresentazione dei fatti e la purezza della trama, senza alcun dubbio particolarmente degna di nota; basti pensare  alla scena degli esperimenti e ai dialoghi che tengono avvinti alla lettura e a ciò che si svolge entro la narrazione degli avvenimenti.
La Nostra rinuncia al purismo, accettando parole di qualsiasi idioma, svolge il motivo a lei caro dell’amore primordiale, basato sulla teoria delle anime gemelle.
Gli argomenti trattati, come la regressione ipnotica e la reincarnazione, divengono non solo motivi di una celebrazione dell’amore in tutti i suoi più alti valori e un incitamento a vivere questo sentimento con forza e gioia ma costituiscono anche una retrospezione intenzionata a ripercorrere intrecci, legami, labirinti, luci e ombre di una terribile falcidia di tutte le Zigeunerinnen sopravvissute agli esperimenti nazisti.
Il romanzo “I Bucaneve di Ravensbrück” è bello, commovente e ricco di magnetismo poetico, dalla forma fluida e sintatticamente perfetta, ove ogni frase ha le sembianze di un piccolo capolavoro, per un accostarsi e sovrapporsi di immagini suggestive che lasciano trasparire un’incredibile ricchezza interiore, mediatrice di una missione estetica e spirituale d’artista.
Il Bucaneve, fiore simbolo dell’Eden, sta a dimostrare che solo l’amore, nel grande vuoto e nel gelo dell’esistenza, ha la funzione di far ritornare l’umanità al vero significato della vita, per cui deve essere sempre considerato come un’esperienza positiva “L’amore non può disorientare, se è amore”, laddove anche un percorso incompiuto diviene speranza e consolazione nonché presenza costante di quel soprannaturale che da sempre sconvolge e instilla dubbi in chi ancora non crede che l’amore vero possa avere un’evoluzione animica oltre la vita.







9 feb 2017

L'ultimo bagliore - Il nuovo romanzo di Giuseppe Filidoro




“Sorrise amaro, nel considerare di quanta presunzione si nutre l’uomo coltivando l’illusione di avere il controllo del tempo, come se ne fosse padrone, e non di questo solo un misero ostaggio




L’ultimo bagliore” (Osanna Edizioni), il secondo romanzo di Giuseppe Filidoro è la conferma di un nuovo talento capace di emozionare, trovando nella scrittura un luogo privilegiato a cui affidare pensieri e riflessioni sull’animo umano e la sua coscienza. L’incipit del romanzo ci trasmette già la percezione di un preciso proposito dell’autore di consegnarci metaforicamente un messaggio essenziale, particolarmente incentrato sui meccanismi impietosi della mente nonché sui tanti subbugli dell’essere.
Ogni esperienza narrata è un’epifania retrospettiva ove il passato, tramite un preciso percorso narrativo, attiva la memoria involontaria del Sé. Siamo di fronte a temi incandescenti quali la morte, la violenza, il senso di colpa, il senso del peccato e il desiderio di espiazione, la fragilità dell’uomo e la forza del destino che, discontinui e imprevedibili secondo la loro essenza più vera, s’insinuano dentro le pieghe del presente delle due figure di spicco: Betta e Don Cesare. L’una si trova a ripercorrere stati d’animo nelle mappe della sua memoria di bambina per riuscire in qualche modo a bonificare e superare il suo “inferno buio”; l’altro accetta passivamente il ruolo che gli si attribuisce sulla scena dell’esistenza, dibattendosi tra le sue “due anime”. Entrambi introversi e tormentati da incubi ricorrenti e costantemente turbati da larve inconsce. Non meno importanti sono le figure femminili antagoniste di Maria e Savina, dal carattere ambiguo e inquietante.
L’autore ama anche attardarsi in minuziose descrizioni, degne di nota, ove la natura e i suoi paesaggi, suggestivi e misteriosi, sono una rappresentazione simbolica dell’energia e del potere dell’essere umano nel profondo. La stessa descrizione dell’evento sismico s’incastra perfettamente nel tessuto narrativo; esso irrompe per scuotere le fondamenta dell’ego e della mente quale disagio psicologico e senso desolato del destino che, sottilmente, gioca sulle corde dell’anima.
Sfondo misterioso e dal carattere simbolico è anche l’immagine della luna, rappresentata come la zona notturna, inconscia e crepuscolare della personalità e della vita infantile; una luna che è il versante passivo ma fecondo dell’immaginazione.

Un’ingannevole logica orienta la fabula e s’impone come se l’autore stesso interrogasse e analizzasse chi in realtà non è unicamente personaggio bensì un vero e proprio Essere seppur incompleto, frammentato e perso negli oscuri meandri dei suoi ricordi.
È doveroso osservare ogni angolatura del testo per riuscire a classificarne correttamente il genere, dato che vari elementi suggeriscono un possibile legame con il romanzo psicologico e introspettivo, senza ignorare un’impostazione di stampo realistico di una narrazione inventata ma al tempo stesso verosimile, in cui l’inquietudine e il senso di colpa rispecchiano la forma più comune di angoscia della nostra cultura.  Con tale opera inoltre, Filidoro ha dato prova di straordinarie intuizioni di ordine sociologico per giungere infine a un’analisi dell’animo umano, propria del romanzo decadente. Continui flussi di coscienza riportano ogni vicenda del passato in superficie; in particolare Betta e Don Cesare sono sottoposti a tormenti continui e traumi interiori sentendosi vittime di voci opposte, di contrasti cupi anche se diversi nelle loro sorgenti personali. Ogni figura qui descritta è un essere a sé che si auto-analizza, si esamina, si scruta e si tormenta nel rivivere fantasmi del passato che appaiono del tutto personali seppur strettamente collegati, talmente forti e insistenti da far desiderare persino la morte quale liberazione da essi.  Lo stesso desiderio di espiazione costringe il co-protagonista Salvo a rianalizzare, in cella, le zone più oscure del suo passato, afflitto dal tormentoso ricordo di un amore bello ma malato, reso quasi perfetto dalla volontà di non esistere più.

Nonostante la ricchezza dell’intreccio, qua e là disseminato di elementi noir, ci troviamo di fronte a una prosa limpida e dai toni pacati che predilige una struttura squisitamente tradizionale, a sottolineare capacità narrative e introspettive notevoli. Non manca la tecnica espressiva che si evidenzia nelle sequenze in carattere corsivo nello specifico letterario dell’analessi. Un insieme di elementi, fitti rimandi alla narrativa proustiana e bufaliniana, induce a riflettere sui tanti quesiti che l’uomo è portato per sua natura a porsi e soprattutto su quel grande e unico perno intorno a cui girano la mente e il cuore dell’uomo a seguito di traumi vissuti, la cui essenza va assolutamente indagata. L’assoluto protagonista nonché tema centrale del romanzo è, dunque, il tormento interiore di una memoria implicita, reclusa negli incubi più difficili da sopportare, un’impronta indelebile di conflitti di una coscienza che implode nell’io e governa l’intera esistenza.
L’ultimo bagliore di Giuseppe Filidoro è senza alcun dubbio un mezzo espressivo attraverso cui è possibile porsi domande fondamentali sulla propria esistenza, riscoprendo traumi e dubbi in grado di trasmettere alchimie interiori intrise di significati che troppo spesso tengono in ostaggio menti rassegnate e incapaci di accettare il corso del destino, con un costante interrogativo: esiste davvero un “ultimo bagliore” che possa condurre verso un ideale ultraterreno, di libertà da noi stessi?











20 giu 2016

Un'appassionata biografia di un'epoca: "fantastici QUEGLI ANNI" di Franco Duranti






fantastici QUEGLI ANNI” - (Storie di tanti capelli fa) pubblicato nel 2012 con edizioniGEI è il libro d’esordio di Franco Duranti, uomo e scrittore di grande creatività nonché fervido amante della musica e dell’arte. Una premessa dell’autore e il testo della splendida canzone “In my life” dei Beatles delineano quell’intenso e piacevolissimo tuffo nel passato che, a mio avviso, non si limita all’autobiografia dell’autore bensì amplia i suoi contenuti verso una precisa analisi interpretativa della biografia di un’epoca; Jesi, città marchigiana delle sue origini, ne è la cornice ispiratrice… “Tutto è cominciato in una tiepida mattina di primavera a Jesi. Era il 1950”. Protagonisti sono dunque i giovani e gli stessi a confronto con gli adulti, a raccontarsi e a raccontare, attraverso aneddoti e scenette familiari, della loro infanzia e della loro crescita; vicende che li vedono instancabili e irrequieti attori durante momenti di gioco, di studio e di socializzazione con luoghi e problematiche che oggi stimolano la riflessione di chiunque desideri condividere il proprio vissuto con i tanti che appartengono a una generazione attuale e “altra”, molto lontana, ahimè, dagli standard contrassegnati da valori interpersonali, ricchi di stimoli sia emotivi che intellettivi. L’attenzione dell’autore si sofferma soprattutto sul ruolo dei giovani nel clima culturale ed economico di quegli anni, ove fasi di cambiamento, intense e rapide, tendono a creare forti discontinuità soprattutto nei gusti dell’abbigliamento e della stessa musica, mentre all’orizzonte si sottolineano atteggiamenti sociali e attitudinali di un’adolescenza che a poco a poco sente l’esigenza di marcare una diversità rispetto alla propria famiglia. Non dimentichiamo infatti, che la famiglia di quegli anni era solidamente basata sul matrimonio e molto rigida. Indiscussa la subalternità sociale e giuridica della moglie e dei figli rispetto al marito/padre.
Lo stile limpido, correttamente diluito e strutturato, con dettagliata fabula di eventi, luoghi   e personaggi, ricco di elementi denotativi e connotativi, rende al meglio ogni paesaggio cittadino, testimone anch’esso di tradizioni, usi e costumi che riecheggiano nella mente e nel cuore dell’io narrante, tra ricordi ed emozioni ove il fenomeno musicale pop-rock, in particolare la “Beatlemania”, si pone come elemento collante,  mentre una sottile e delicata nostalgia riaffiora e ne “coccola” la memoria. L’esposizione dalle forme morbide, mista in alcuni tratti ad una terminologia colorita, ci presenta giovani alquanto turbolenti, sebbene timidamente impertinenti “Un alone invisibile ci circondava e ci rendeva unici, invincibili: certi di essere superiori ai comuni mortali […]”, i quali fanno sentire la loro voce, raffigurano una propria caratteristica sociologica accanto a una diffusa opposizione ai valori dominanti e generano una posizione critica verso le due istituzioni chiave: famiglia e scuola.
Un romanzo-manifesto che ci mostra chiaramente la variabile tra passato e presente di una generazione anticonformista che preannuncia già l’esplosione sessantottina, in un’Italia in piena trasformazione socio-economica e culturale veloce, dirompente e incalzante. Arma di evoluzione è la musica Beat con la sua ventata di rinnovamento melodico e, soprattutto, di rottura con gli schemi classici della canzone italiana di quei tempi.
Sulle note delle canzoni dei Beatles, dei Rolling Stones e di Joan Baez gran parte dei giovani in America e in Europa iniziano a protestare contro la guerra, contro la società dei consumi; essi acquistano consapevolezza delle ideologie politico-culturali, del significato di un amore libero e senza tabù e dell’importanza dell’amicizia condivisa.
Il libro di Franco Duranti è senz’altro una lettura significativa che serve a ricostruire la storia di anni in cui capelli lunghi, camicie attillate e pantaloni a sigaretta erano “il primo sintomo di rivolta verso una società perbenista in cui avevamo vissuto la nostra prima fase di vita”, una gioventù contestataria che allora modificò radicalmente le mode e le condotte, per la sua importante stagione con atteggiamenti ribellistici, provocatori, anticonformisti e trasgressivi che tuttavia non tolgono nulla alla bellezza dei sogni, agli scenari antichi e moderni delle nostre città, all’amore e a tutte quelle persone che, come scrive l’autore: “hanno vissuto con me e mi hanno permesso di dire: FANTASTICI QUEGLI ANNI! “ .
Da sempre e in ogni epoca i giovani sono un oggetto particolarmente sfuggente proprio perché si tratta di una condizione a termine e i giovani di ieri sicuramente non sono più i giovani di oggi. Viviamo, infatti, in un tempo in cui ci si propone una gioventù dal godimento effimero e istintivo che non richiede particolari conoscenze se non l’uso morboso, freddo e distaccato della tecnologia digitale.
Esattamente come Franco Duranti, tutti noi appartenenti agli anni ’50 -’60 abbiamo lasciato qualcosa nel nostro viaggiare nel tempo e ora, difficilmente riusciamo a non abbandonarci a quella memoria emotiva che ci dona momenti di piacevole affettività da rievocare, consentendoci di confrontarci con il prima e il dopo, tra il nostro passato e il nostro presente.




9 apr 2016

Una lettrice del mio libro "penne d'aquila"


Ringrazio Carmela Ponti per questa bellissima e molto gradita sua nota di lettura al mio romanzo "Penne d'aquila"





Un volo d'aquila, parole scritte che riflettono emozioni che hanno il compito di ricongiungere l'anima ad un corpo funambolo sul filo delle leggi dell'universo.
Un romanzo che letto e riletto trova negli occhi attenti del lettore uno sprone verso la consapevolezza interiore di una donna, che altro non è che un guardarsi dall'esterno, come guardare un film, un viaggio a ritroso nel tempo e un dialogo con esperienze di vita e risvolti di scelte, giuste o sbagliate, senza percepire i fantasmi del rimpianto e della delusione.
Un'accettazione di tutti i colori che hanno dipinto la sua vita, i suoi affetti e la sua solitudine, il lavoro, e l'amore, quello vero svelato in un unico sogno, compresi il nero della morte e il bianco degli Angeli che la custodiscono e la guidano verso l'unica e sola verità: non esiste un vero equilibrio se non nella forza d'anime e nelle Fede, che insieme vincono le nubi più nere di pioggia che oscurano il cammino.
Un percorso di crescita difficile, lento, un’introspezione che forma e ricostruisce ogni presente, sempre col sorriso anche quando gli eventi appaiono nemici e trafiggono l'animo della protagonista con spade di sofferenza e confusione e lo lacerano, ravvivando la brace che sotto la cenere del passato scalda il cuore e le sue emozioni fino alla comprensione che ogni scintilla di quel fuoco riacceso è una speranza per il futuro.
Una scrittura elegante, intelligente, tersa ed intrisa di tenerezza, che esprime ed evidenzia la delicata anima di Virginia e la sua spiccata sensibilità, forte nella bontà ed umile nella semplicità del rapporto col quotidiano vissuto sempre appieno, attimo dopo attimo, senza tralasciare niente; una persona che sa ed ama vivere la sua vita nella sincerità e nel dono di sé, senza pretese di scambio. Un romanzo che dona a mente e cuore il senso di pace con se stessi che ogni essere umano cerca affannosamente.
Penne d'aquila mi insegna che vivere è molto di più che respirare la superficialità del mondo, ma come un'aquila che prima di spiccare il volo osserva il suo mondo, apre le sue ali nel cielo in un volo basso, scende in picchiata fino a terra e si nutre di essa per poi rialzarsi verso Cieli più alti.




CARMELA PONTI

S. Pietro in Guarano (CS) 08.04.2016



24 nov 2015

La paura della morte: inquietudine e impotenza.


"Se la natura non ha dotato l'uomo di un istinto in modo di avvertirlo della data e dell'ora esatta   della propria morte è perché ciò avrebbe come risultato la nascita di un sentimento di depressione suscettibile di annichilire ogni volontà d'azione e ogni desiderio elementare di sopravvivenza."
(Henri-Louis Bergson)


Tra le varie pubblicazioni del giornalista Fabiano Del Papa troviamo anche un suo primo romanzo, Il mistero del cocomero (edito dal Gruppo Editoriale Domina nel 2003), un’opera interessante, finemente articolata che nasce dallo spirito vivace e dallo stile accorto, propri dell’autore. Trattasi di una storia vera dove il narratore è lui stesso protagonista, o meglio, la vera protagonista è la paura della morte. Un esordio non da poco, se si considera la tematica particolarmente delicata; ne consegue, a mio parere, un’impresa estremamente ardua da discernere per qualunque scrittore e, certamente una consuetudine di pensiero radicata in ogni essere umano, fin dalla notte dei tempi, fin dai primi istanti della nostra incarnazione. La vicenda, vissuta in prima persona dallo stesso Del Papa, ha inizio in Ungheria, nell’incantevole Budapest “[…] in un albergo elegante e un po’ decadente, edificato, tanto tempo fa, proprio in mezzo al pluricelebrato, romantico Danubio”, con una sorta di piacevolissimo incontro con un’affascinante donna che al lettore, dapprima, può sembrare galante; in realtà tale conoscenza porterà l’autore a vivere una serie di avventure a dir poco sconcertanti e destabilizzanti. Dietro a ogni esperienza si cela una proposta occulta e misteriosa che ha a che fare con nuove scoperte nel campo della biologia, di sostanze in grado di rallentare i processi cellulari dell’invecchiamento. A contatto con i vari personaggi menzionati e tratteggiati nel minimo dettaglio, ci troviamo di fronte a una tempesta di emozioni e di umori; tra le varie influenze più disparate e apparentemente contrastanti si accavallano e si rincorrono un’appagante curiosità e desiderabilità maschile di pura attrazione fisica verso l’altro sesso e un più complicato senso di confusione, inquietudine e impotenza di fronte ad argomenti più specificamente metafisici ed etici[…] le solite, eterne domande che mi prendevano d’assalto: chi siamo, che facciamo, da dove veniamo, ma dove andiamo?” Eccoci dunque immersi in sequenze descrittive, narrative e riflessive che s’intrecciano e velano una risposta emotiva appropriata che l’autore ha saputo maneggiare con estrema cura e, soprattutto, con briosa destrezza nel tessere la trama, per un’architettura strutturale che spiazza il lettore, con un antefatto, un movente e una coda, assolutamente imprevedibili.
Analessi e prolessi si alternano per dare respiro o forse, per instillare dubbio e riflessione nel lettore prim’ancora di procedere con la narrazione, del resto l’argomento è senz’altro spinoso, fare i conti con la comprensione della morte è naturale quanto la vita stessa, pur sempre rimanendo perturbante “La cognizione della scomparsa, credo sia il pensiero più atroce per qualsiasi animo normale” inoltre, vita lunga non comporta di certo vita eterna.
Nella fantasia popolare greca e in alcuni miti molto antichi la morte appare come un’entità maschile, si chiama Thànatos, è figlio della Notte e fratello del Sonno; esattamente come la notte e il sonno, essa diviene inevitabilmente, anche se ultima, una condizione della nostra esistenza terrena.
Secondo la sua definizione generica, la morte altro non è che la cessazione di quelle funzioni biologiche che ne determinano ogni organismo vivente, trattasi dunque, in realtà, di una paura non tanto della condizione della morte in sé, quanto piuttosto del processo che vi conduce, ovvero del morire.  
In questo senso Fabiano Del Papa con il suo romanzo non ha banalizzato la tanatofobia, semmai l’ha esorcizzata, per certi versi, al punto di scriverne ogni incertezza che determina la nostra ansia, alimentando un insanabile conflitto tra le nostre credenze religiose e la forza della convinzione personale. Ritengo che in ognuno di noi risieda una specie di umanesimo ateista che pesa su tutti noi e del quale tutti siamo vittime, mentre una vita autentica richiede l'accettazione dell'angoscia di vivere e nulla ha a che fare con la vera immortalità, poiché essa, materialmente parlando, è esistente solamente a livello spirituale e, di conseguenza, in qualità di anima.
Chi mai potrebbe innalzare il suo stesso intelletto fino a mutare il normale svolgimento di un’esistenza fisica? Il problema della morte attraversa la storia della filosofia occidentale che da sempre ha tentato di darne una spiegazione metafisica e, purtroppo, non siamo piante erbacee perenni come il cocomero bensì noi ci siamo solamente per poi morire, con la viva speranza di avvicinarci con il tempo verso una sorte di cambiamento, di trasmigrazione dell’anima da una sede all’altra. La paura della morte è uno stato mentale, se ricercassimo maggiormente “il vero senso” dell’esserci, molto probabilmente riusciremmo a sedare le nostre angosce e vivere con maggiore coraggio i nostri giorni da incarnati, riflettendo sui veri valori del nostro cammino terreno. Nel suo romanzo, l’autore ha in fondo confidato a se stesso e a noi lettori che la vera immortalità sta nell’abbondanza e nella realizzazione, quale simboli di compiutezza e di una maturità felice di rapporti vissuti con pienezza.
Che sia questo il mistero del cocomero? Non lo sapremo mai se non dopo…  Non sarà la fine di tutto!





14 mag 2014

Commento-recensione della poetessa Sandra Carresi al mio romanzo Penne d'aquila

Ringrazio l'amica poetessa SANDRA CARRESI per questo bellissimo commento al mio romanzo Penne d'aquila (Kimerik)






        

-   Un pensiero             su                      Susanna Polimanti –
   fermando così, le mie sensazioni…
                                                                                                 -                                                                     - Penne d’aquila – Romanzo


Ho conosciuto una bella persona, Susanna, da poco tempo devo dire, ma, ricevuto in regalo il suo libro, ricca di curiosità, ne ho bevuto l’essenza, e, compreso la stima e la simpatia immediata, condividendo in pieno, il significato del titolo – Penne d’aquila – - Casa Editrice – KIMERIK -

L’adolescenza è la fase più importante ed essenziale della nostra vita, l’essenza che ne rimane addosso è un vestito che, nonostante il trascorrere degli anni e del conseguente cambiamento fisico, resta piacevole rispolverare e indossare. Tutto questo non per tornare indietro, ma semplicemente per andare avanti.

-          La nostra, Virginia, protagonista del libro, è certamente donna forte, grintosa, intelligente, tenace, autonoma e… se posso, fortunata.  Nata in un clima serrato dagli affetti familiari, con fratelli, e amiche vere, la cui perdita può avvenire solo con la morte, ma nessuna distanza fisica, né tantomeno il tempo, può scalfire o imbrattare, è patrimonio che si può incontrare dalla nascita, ma, il saperlo mantenere, arricchire, alimentare attraverso gli anni, è materia di valori interni, forti, sentiti e consolidati.

-          Ci sono Amori, magari nati sui banchi di scuola, che ci fanno crescere, ma, non solo. Rimangono in quel pezzetto di cuore che ci appartiene in solitudine, che ci fa compagnia e che torna sempre a galla al momento opportuno. A volte, forse con fastidio ci permette di fare paragoni con altri amori, passioni o distrazioni, ma, poi alla fine, ci fa scoprire il nostro vero “io”, non regalandoci necessariamente malinconie, ma, accrescendo i nostri percorsi di vita con un’apertura nuova, forse timidamente ancora all’ombra della nostra anima.

La ricchezza è mia, in questa fase di vita, ormai scollinata, a fare incontri con persone speciali capaci di regalare emozioni, mostrando coraggio e saggezza, illuminando la possibilità di andare “oltre” ogni possibile sfida.

                                                                                            
Firenze, 13 maggio, 2014
                                                                                                            
 Sandra Carresi