“Eppure l’amore non è solo perdita, rifiuto, mancanza; è impulso che
smuove l’ordinaria sopravvivenza, è il camminare su una corda in punta di piedi
sfidando la vertigine e il vuoto. È quel volo senza ali nel nostro infinito in
cui è perfino possibile riconoscere il diafano riapparire delle anime”.
(Dalla Prefazione di Nuccia
Martire)
Anna Laura Cittadino con “I Bucaneve di Ravensbrück” (Casa
Editrice Kimerik – 2017) apre la via a
un quesito sulla vera essenza dell’Infinito e dell’Eterno, nella veste leggera
e gradevole di una relazione magica che nasconde, dietro l’apparenza di un amore
improvviso e inspiegabile, la nascita di un legame karmico, un affresco quasi fiabesco di una storia d’amore che, nel
tessuto narrativo, rivive il sentimento di un altro percorso molto più
drammatico.
L’incontro tra un uomo e una
donna, entrambi scrittori i quali, in un primo momento sembrano condividere
solo la passione per una stessa arte, consente alla scrittrice di varcare la soglia di una memoria celata
nell’anima, al fine di riscuotere un credito dharmico, verso identità entro cui il sentimento agisce e vive ab
aeterno, sciogliendo i nodi irrisolti di un vissuto interrotto. Nella
penna della Cittadino, il presente dei
protagonisti, qui senza alcun nome proprio ma unicamente contraddistinti dalle
forme oblique pronominali “Lui” e “Lei”, è tessuto con delicatezza di toni,
sullo sfondo romantico ma non mieloso di una rielaborazione del passato; quasi
una trasmigrazione di anime affini che continuano a viaggiare insieme cercando
la propria metà perduta.“ […] Lui è… lui
è… l’altra parte di me, l’altra metà del mio specchio, l’altra metà del mio
sentire, è quel sogno che da sempre custodisco dentro e ho paura, so che mi
sveglierò e lo vedrò svanire, evaporare, come una macchia d’acqua su un
vestito… non può esistere”.
Due anime invisibilmente
connesse, oltre le cognizioni spazio-temporali e in un ciclo infinito, si
ritrovano in una nuova vita per poter risolvere ciò che era rimasto in sospeso.
Chiusi i cancelli sugli orrori raccapriccianti del 1944 nel campo di
concentramento femminile B2 di Birkenau, dove medici e ricercatori nazisti
usavano le donne Rom-Sinti come cavie umane per esperimenti sulla
sterilizzazione e per effettuare altri tipi di ricerche e, grazie soprattutto a
una regressione ipnotica, le anime dei protagonisti ricordano e rivivono lo
stesso grande amore di Marcin Lodz e Beatrix Cioran. È come se la loro anima,
prim’ancora di incarnarsi, abbia scelto di sanare i dolori e il distacco,
riscattando il proprio amore conclusosi troppo presto e non vissuto interamente
“L’affanno si farà respiro e il respiro
sarà il vento che gonfierà le vele del nostro cuore e ci spingerà lontano da
quel tempo privo di luce che è stato il nostro passato”.
Quella vena di grazia intimamente poetica, propria di un personale
procedimento stilistico e che abbiamo già trovato nei precedenti romanzi della
scrittrice, riaffiora nuovamente dando
vita a una continua onda lirica che fascia e avvolge il tutto, senza
turbare minimamente la rappresentazione dei fatti e la purezza della trama,
senza alcun dubbio particolarmente degna di nota; basti pensare alla scena degli esperimenti e ai dialoghi che
tengono avvinti alla lettura e a ciò che si svolge entro la narrazione degli
avvenimenti.
Gli argomenti trattati, come la
regressione ipnotica e la reincarnazione, divengono non solo motivi di una
celebrazione dell’amore in tutti i suoi più alti valori e un incitamento a
vivere questo sentimento con forza e gioia ma costituiscono anche una
retrospezione intenzionata a ripercorrere intrecci, legami, labirinti, luci e
ombre di una terribile falcidia di tutte le Zigeunerinnen
sopravvissute agli esperimenti nazisti.
Il romanzo “I Bucaneve di Ravensbrück” è bello, commovente e ricco di magnetismo poetico, dalla forma fluida e
sintatticamente perfetta, ove ogni frase ha le sembianze di un piccolo capolavoro,
per un accostarsi e sovrapporsi di immagini suggestive che lasciano trasparire
un’incredibile ricchezza interiore, mediatrice di una missione estetica e
spirituale d’artista.
Il Bucaneve, fiore simbolo dell’Eden, sta a dimostrare che solo l’amore,
nel grande vuoto e nel gelo dell’esistenza, ha la funzione di far ritornare
l’umanità al vero significato della vita, per cui deve essere sempre considerato
come un’esperienza positiva “L’amore non
può disorientare, se è amore”, laddove anche un percorso incompiuto diviene
speranza e consolazione nonché presenza costante di quel soprannaturale che da
sempre sconvolge e instilla dubbi in chi ancora non crede che l’amore vero
possa avere un’evoluzione animica oltre la vita.
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