“Fa' così, caro Lucilio: rivendica a te il
possesso di te stesso, e il tempo, che finora ti veniva sottratto apertamente,
oppure rubato, oppure ti sfuggiva, raccoglilo e conservalo”
(Seneca - Il valore
del tempo- Epistula ad Lucilium, 1)
“Versi d’autunno” (Genesi
Editrice- marzo 2016) è una silloge poetica di Antonio Damiano che ha meritatamente conseguito il 1° Premio
dell’Area poeti della tradizione, alla V Edizione del Concorso Letterario “I
Murazzi” di Torino. Si tratta di un’opera eccellente, ricca di maturi spasimi e
attese crepuscolari, in un attento scandaglio interiore verso un consapevole
bilancio di un vissuto che si dipana nel tempo e scorre come “solinga attesa”:“La vita è già passata[;] è già oltre[…]Ma cosa mai posso fare[…]così
vecchio[,]/Così stanco[…]”.
Attraverso l’intera poetica si
profilano continui, il senso della caducità
della vita, degli sforzi umani e un rapido trasformarsi di ogni esperienza,
percepita con travolgente trasporto nella costante e inestinguibile emozione
del ricordo. Per originaria accezione, nella parola “autunno” risuonano sia
la lentezza irrimediabile di luci sparenti, di cieli amplissimi che si spengono
sia il godere del nostro tempo migliore,
quello della pienezza dell’essere; una
stagione che incede silenziosa fuori e dentro di noi di cui il poeta si
rende cantore. Dal fluire e svanire delle cose si alza, unica, anelata fonte di
salvezza e d’eternità l’Arte, intesa come creazione poetica; in essa implodono
tutti i tormenti e tutte le estasi, mettendo a nudo il sentimento più intimo
del poeta “Ognuno ha
un’isola nel cuore [,] un’Itaca/Lontana[,]che traluce nei suoi occhi/Sospesa
nel ricordo[.] E lo accompagna[…]”.
Il Nostro si sente pervaso dalla lacerante coscienza di avere
ormai irrimediabilmente dietro di sé quell’Eden di intatta innocenza, di
totale identità tra io e natura, di perfetta comunione tra fantasia e realtà,
al quale da adulti si cerca sempre, ahimè senza speranza, di fare ritorno “ Non c’è ritorno verso quello che vorrei[,] /
Che riluce nei miei occhi con immagini/ Beate dell’implume primavera[.] / E
nube senza vento ristagna sui miei giorni[,] / Offuscando il tempo
dell’immemore stagione”.
La natura si mitizza nella memoria e assurge a serbatoio di purezza
incontaminabile, perpetua promessa di conforto persino alle incongruenze
inferte dallo scambio sociale.
Sfondo privilegiato è la Campania , sua terra
d’origine: riserva di bellezza con i suoi paesaggi e tradizioni, che nel verso
ritornano attraverso la voce della saggezza, per ricomporre frammenti e smorzare
l’angoscia di un allontanamento che la vita ha imposto ma che è anche occasione
di raccoglimento, garante di autenticità e distanza salutare dall’inevitabile
grigiore della routine quotidiana, in un “perenne
divenire”… “La stagione appen si muove
nei suoi lenti/Mutamenti [;] cresce e si distende[,] cangia/ E trascolora[…]”.
Il verso, ritmato delicatamente
dalla pulsione al ritorno e un io poetico depositario della memoria,
sottolineano la fugacità e la precarietà dell’esistenza umana: “È il Tempo il signore della vita”. Appaiono
evidenti i richiami al “Sentimento del
Tempo” ungarettiano mentre la particolare nostalgia, rappresentata dal
ricordo della giovinezza trascorsa, le relazioni intersoggettive e il nido
familiare, rimandano alla pascoliana “Myricae”.
Lo stile è
contrassegnato da grande raffinatezza formale e si esplica in una puntigliosa
fedeltà al ritmo e all’impasto musicale con
frequenti enjambements, di qui un
verso lungo segnato da naturali e armoniose cesure che ascrivono questa silloge
tra le migliori nella vastità delle opere poetiche
contemporanee. La continuità
degli echi, la multiforme e sfaccettata vitalità di spunti e voci creano un
universo elegiaco dove la desolazione del presente, accompagnata dallo spirito malinconico
del passato, ricorda le liriche di stampo ovidiano.
Per
cogliere al meglio il segreto della poetica di Damiano, occorre
avvicinarsi al suo con-sentire, cioè sentire insieme agli altri, presago di un indebolimento dell’individuo di fronte
all’incombere di una decadenza di valori, prediligendo i più elevati beni
intrinseci verso un anelito di fraterna intesa umana, che possano contrastare
le paurose incognite di un’epoca distratta e disorientata. Non esiste un vero e proprio antidoto alla nostalgia, il
poeta è più che consapevole delle tante malinconie che ritornano,
che danno il senso, non della perdita, ma di quell'eterna ciclicità di cui
tutti facciamo parte e a cui tutti tendiamo. La stanchezza crepuscolare non si
delinea come un segno di sconfitta e di rinuncia ma si dissolve in un’aurea di
sofferta dignità, in attesa di raggiungere quella “terra promessa”… “Allorquando
la luce terrena si spegne”. Il
poeta sembra chiudersi in se stesso, non più desideroso di udire i rumori del
tempo, eppure questo tempo non lo trova distratto o indifferente, al contrario: i suoi versi tendono a disseppellire quella
fede che dona a ogni uomo la possibilità di sollevarsi al di sopra del mondo e
delle sue miserie, per comprendere meglio la vita ed anche la morte.