“Sorrise amaro,
nel considerare di quanta presunzione si nutre l’uomo coltivando l’illusione di
avere il controllo del tempo, come se ne fosse padrone, e non di questo solo un
misero ostaggio”
“L’ultimo
bagliore” (Osanna Edizioni),
il secondo romanzo di Giuseppe Filidoro è la conferma di un nuovo talento capace
di emozionare, trovando nella scrittura un luogo privilegiato a cui affidare pensieri
e riflessioni sull’animo umano e la sua coscienza. L’incipit del romanzo ci trasmette già la percezione di un preciso
proposito dell’autore di consegnarci metaforicamente un messaggio essenziale, particolarmente
incentrato sui meccanismi impietosi della mente nonché sui
tanti subbugli dell’essere.
Ogni
esperienza narrata è un’epifania retrospettiva ove il passato, tramite un preciso
percorso narrativo, attiva la memoria involontaria del Sé. Siamo di fronte a temi incandescenti quali la morte, la
violenza, il senso di colpa, il senso del peccato e il desiderio
di espiazione, la fragilità dell’uomo e la forza del destino che,
discontinui e imprevedibili secondo la loro essenza più vera, s’insinuano
dentro le pieghe del presente delle due figure di spicco: Betta e Don Cesare.
L’una si
trova a ripercorrere stati d’animo nelle mappe della sua memoria di bambina per
riuscire in qualche modo a bonificare e superare il suo “inferno buio”; l’altro accetta passivamente il ruolo che gli si
attribuisce sulla scena dell’esistenza, dibattendosi tra le sue “due anime”. Entrambi introversi e tormentati
da incubi ricorrenti e costantemente turbati da larve inconsce. Non meno
importanti sono le figure femminili antagoniste di Maria e Savina, dal
carattere ambiguo e inquietante.
L’autore
ama anche attardarsi in minuziose descrizioni, degne di nota, ove la natura e i suoi paesaggi, suggestivi
e misteriosi, sono una rappresentazione simbolica dell’energia e del potere
dell’essere umano nel profondo. La stessa descrizione dell’evento sismico
s’incastra perfettamente nel tessuto narrativo; esso irrompe per scuotere le
fondamenta dell’ego e della mente quale disagio psicologico e senso desolato
del destino che, sottilmente, gioca sulle corde dell’anima.
Sfondo
misterioso e dal carattere simbolico è anche l’immagine della luna, rappresentata
come la zona notturna, inconscia e crepuscolare della personalità e della vita
infantile; una luna che è il versante passivo ma fecondo dell’immaginazione.
Un’ingannevole logica orienta
la fabula e s’impone come se l’autore stesso interrogasse e analizzasse chi
in realtà non è unicamente personaggio bensì un vero e proprio Essere seppur
incompleto, frammentato e perso negli oscuri meandri dei suoi ricordi.
È
doveroso osservare ogni angolatura del testo per riuscire a classificarne
correttamente il genere, dato che vari elementi suggeriscono un possibile legame
con il romanzo psicologico e introspettivo, senza ignorare un’impostazione di
stampo realistico di una narrazione inventata ma al tempo stesso verosimile, in
cui l’inquietudine e il senso di colpa
rispecchiano la forma più comune di angoscia della nostra cultura. Con
tale opera inoltre, Filidoro ha dato prova di
straordinarie intuizioni di ordine sociologico per giungere infine a un’analisi
dell’animo umano, propria del romanzo decadente. Continui flussi di coscienza
riportano ogni vicenda del passato in superficie; in particolare Betta e Don
Cesare sono sottoposti a tormenti continui e traumi interiori sentendosi vittime
di voci opposte, di contrasti cupi anche se diversi nelle loro sorgenti
personali. Ogni figura qui descritta è un essere a sé che si auto-analizza, si
esamina, si scruta e si tormenta nel rivivere fantasmi del passato che appaiono
del tutto personali seppur strettamente collegati, talmente forti e insistenti
da far desiderare persino la morte quale liberazione da essi. Lo stesso desiderio di espiazione costringe il
co-protagonista Salvo a rianalizzare, in cella, le zone più oscure del suo
passato, afflitto dal tormentoso ricordo di un amore bello ma malato, reso quasi
perfetto dalla volontà di non esistere più.
Nonostante
la ricchezza dell’intreccio, qua e là disseminato di elementi noir, ci troviamo di fronte a una prosa limpida e dai toni pacati che predilige una struttura squisitamente
tradizionale, a sottolineare capacità narrative e introspettive notevoli. Non
manca la tecnica espressiva che si evidenzia nelle sequenze in carattere corsivo
nello specifico letterario dell’analessi. Un insieme di elementi, fitti rimandi
alla narrativa proustiana e bufaliniana, induce a riflettere sui tanti quesiti
che l’uomo è portato per sua natura a porsi e soprattutto su quel grande e
unico perno intorno a cui girano la mente e il cuore dell’uomo a seguito di
traumi vissuti, la cui essenza va assolutamente indagata. L’assoluto
protagonista nonché tema centrale del romanzo è, dunque, il tormento interiore
di una memoria implicita, reclusa negli incubi più difficili da sopportare,
un’impronta indelebile di conflitti di una coscienza che implode nell’io e governa
l’intera esistenza.
L’ultimo bagliore
di Giuseppe Filidoro è senza alcun
dubbio un mezzo espressivo attraverso cui è possibile porsi domande
fondamentali sulla propria esistenza, riscoprendo traumi e dubbi in grado di
trasmettere alchimie interiori intrise di significati che troppo spesso tengono
in ostaggio menti rassegnate e incapaci di accettare il corso del destino, con
un costante interrogativo: esiste davvero un “ultimo bagliore” che possa condurre verso un ideale ultraterreno,
di libertà da noi stessi?
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